La pandemia ha reso evidenti la cronica incapacità dei giornali delle radio e delle TV nel rendere una buona informazione. Prova ne sia la quantità innumerevole di volte in cui la parola “vaccino” è stata sostituita con i termini “siero” e “antidoto”.
Per chi non lo sapesse NON sono la stessa cosa.
Il siero contiene già gli anticorpi pronti. Viene inoculato per bloccare l’agente responsabile della infezione nel periodo che intercorre tra il contagio e l’insorgenza dei sintomi o anche quando la malattia si è già manifestata. Il siero antitetanico ed il siero antirabbico sono solo alcuni esempi. Il siero antivipera (o antiofidico) è un’altro esempio.
L’antidoto invece è una sostanza chimica o un farmaco che viene usato per impedire o contrastare l’intossicazione da parte di un’altra sostanza chimica (ad esempio la vitamina K è un antidoto per il veleno dei topi, il narcan è l’antidoto per la morfina, l’etanolo al 96% è l’antidoto per il metanolo etc.).
Quindi quando leggete antidoto e siero ma è chiaro che si parla del vaccino anti-COVID sappiate che chi lo afferma non si è neppure preso la briga di verificare il significato delle parole che utilizza. Trattandosi di giornalisti l’appunto non è di importanza marginale.
Letalità
La stessa problematica si evidenzia quando si parla di statistiche relative ai decessi.
Da quando è scoppiata la pandemia c’è una grande confusione tra mortalità e letalità.
La questione della letalità è stata molto dibattuta all’inizio della epidemia.
La letalità di qualsiasi patologia e quindi anche del COVID-19, è la percentuale di decessi tra coloro che contraggono la patologia.
All’inizio della pandemia la letalità è stato il parametro di gran lunga meno affidabile ma nel contempo il più dibattuto e pubblicizzato.
Essendo una malattia del tutto nuova il dato dei decessi rispetto ai contagiati totali da Sars-CoV-2 variava nettamente per una molteplicità di motivi.
In Italia la letalità variava enormemente a seconda delle Regioni. Ecco la situazione al 26 aprile 2020 (dati Gedi Visual – sito Repubblica)

La discrepanza, secondo alcuni commentatori, era spiegabile con il fatto che il virus era mutato, che il ceppo italiano era più aggressivo (in particolar modo quello lombardo), che lo smog nella pianura padana aveva aggravato il numero di morti ed altre corbellerie assortite.
La differenza tra le Regioni era affatto macroscopica. Ma questo non significava che il coronavirus appena varcati i confini regionali modificasse la sua letalità. Tale ipotesi non è ovviamente credibile. Come non era suffragata da alcuna prova scientifica che i piemontesi colpiti da COVID fossero preda da un “ceppo lombardo” (dichiarazione dell’Assessore alla Sanità del Piemonte Icardi – 22 febbraio 2020):

In questo grafico, tratto dalla Johns Hopkins University, aggiornato al 26 aprile 2020, si può constatare l’enorme differenza esistente nella letalità tra alcuni Paesi della Unione Europea, USA e Cina.

Il grafico successivo invece è tratto dal centro per la medicina basate sulle evidenze di Oxford ed è stato elaborato a fine aprile 2020. Anche se la qualità grafica non è delle migliori potete apprezzare come la letalità (in ordine decrescente) varia incredibilmente tra i diversi Paesi.

La letalità (o Case Fatality Rate) è calcolata ponendo al denominatore tutti i casi ed al numeratore tutti i decessi causati di una determinata malattia:

La letalità è quindi una semplice proporzione.
Ciò vuole dire che i decessi sono compresi nel denominatore (dato che anche essi sono stati contagiati).

Letalità apparente e letalità reale
Attenzione però al fatto la letalità che deriviamo da questa proporzione è quella che risulta dal numero di contagi rilevati e dal numero di decessi attribuibili alla malattia.
Si tratta di una letalità “apparente” ovvero una letalità che deriviamo dai dati di cui disponiamo.
La realtà può essere ben diversa. L’aspetto più critico di questa proporzione è il numero reale dei contagiati (A+B) che si trova al denominatore. I fattori che alterano il calcolo della letalità sono molteplici:
- I casi asintomatici, i pazienti con sintomi lievi o i soggetti i cui sintomi possono essere scambiati con una patologia simil-influenzale non rientrano generalmente nel denominatore e sfuggono spesso al tracciamento, determinando così una sovrastima del CFR.
- Il numero dei casi totali (deceduti o meno) varia notevolmente da Paese a Paese non solo per capacità di effettuare i test ma anche per trasparenza dei dati (vi fidate di quello che dichiara l’Iran o la Cina in confronto ai dati di Francia e Italia?).
- Anche il numero dei decessi può essere minore del reale. I morti lasciati per strada in Ecuador o deceduti davanti ai pronti soccorso in India non sono stati sicuramente tamponati. Sono quindi decessi che non finiscono al numeratore.
- Nella fase più acuta dell’epidemia vi è un selection bias per cui vengono sottoposti al tampone solo i casi più gravi. Questo, in Italia e negli altri Paesi è avvenuto durante le tre ondate. Gli epidemiologi chiamano più correttamente questo fenomeno come severity bias. Questa condizione riduce enormemente il denominatore.
- Durante il decorso della epidemia si può verificare che la letalità non si riduca malgrado si verifichi un calo dei contagiati ma anzi addirittura aumenti. Quando il numero dei contagi inizia a diminuire il numero dei decessi rimane elevato in quanto i decessi sono generati da infezioni anche di un mese prima. I nuovi contagi ed i decessi avvengono in intervalli temporali differenti e quindi la letalità non fotografa la situazione in modo coerente. Quello è ciò che sta accadendo ad esempio con la efficacia della campagna vaccinale: i contagi diminuiscono con una velocità maggiore rispetto ai decessi;
- Ci possono essere molteplici fattori in gioco nell’aumento dei decessi tra cui la prevalenza nella popolazione di alcune patologie concomitanti, la percentuale di fumatori, un sistema sanitario inadeguato e soprattutto le caratteristiche demografiche della popolazione. In Italia il 25% della popolazione ha oltre 65 anni, in molti Paesi Africani, sudamericani ed asiatici l’età media della popolazione si aggira sui 30-40 anni.
- La attribuzione del decesso alla patologia può anche essere molto diversa: morire con il coronavirus (associazione) non è la la medesima cosa di morire per il coronavirus (causa). Ma la banale equazione: morti da COVID=morti anticipati solo di un poco non vale per tutti ma solo per una minima parte dei decessi.
All’inizio della epidemia in Italia vi è stato un assurdo dibattito tra chi minimizzava l’impatto della epidemia perchè tanto “morivano solo gli anziani”, che “sarebbero morti comunque” e che in fondo “si trattava di una banale influenza”. Una narrazione che mirava a trasformare il numeratore della letalità a morti comunque inevitabili.
Per dirimere la questione e conoscere la letalità reale abbiamo quindi bisogno di due dati:
- Il numero totale dei contagiati: tutti, anche quelli asintomatici
- Il numero delle persone che sono decedute a causa della malattia
Noi in realtà sappiamo quanto persone muoiono ma non sappiamo quante sono state complessivamente contagiate . Certamente, come ricordato sopra, anche i decessi potrebbero non essere totalmente affidabili. Ci sono molti decessi avvenuti a casa, moltissimi decessi nelle RSA che non sono stati conteggiati come morti da COVID. Questo può determinare una verosimile sottostima.
Ma tale problematica è di gran lunga attenuata se al denominatore vi fosse il numero reale delle persone contagiate. I contagiati sopravanzano di gran lunga i decessi. Dal primo pioneristico lavoro del Prof. Crisanti a Vò Euganeo pubblicato su Nature1 è risultato evidente che una percentuale variabile di contagiati tra il 30 ed il 40% è totalmente asintomatica.
Se rivedete la formula il numero dei casi totali (A+B) al denominatore è in gran parte determinato dai contagiati sopravvissuti (B). La distorsione nel numero dei decessi (A) diventerebbe pertanto trascurabile se avessimo un fotografia reale di questa popolazione di contagiati.
L’Infection Fatality Ratio
Quello che vogliamo sapere non è il CFR (Case Fatality Ratio) ma l’IFR (Infection Fatality Ratio). La differenza è fondamentale anche se la formula è apparentemente la stessa. Tutto ruota sul denominatore e su quella parte di esso che indichiamo come “casi”.
I casi non sono solo quelli a cui abbiamo fatto il tampone ma tutti i casi anche quelli asintomatici che spesso sfuggono agli accertamenti se il tracciamento non funziona.
I contagiati reali sono di gran lunga superiori ai “casi” che sono stati tamponati anche nei periodi che si trovano tra le ondate.
C’è uno studio francese, pubblicato online con procedura accelerata da Nature il 21 dicembre 2020 che avrebbe dovuto essere un monito non solo per il Presidente Macron ma per tutti i Governatori delle Regioni italiani, per i soliti pifferai del “liberi tutti” e per chi voleva negare l’evidenza di una ulteriore inevitabile terza ondata.
Nessuno di questi legge ovviamente Nature. Ma quelli che li consigliano si.
Bastava dare loro retta

Per capire il vero impatto dei contagiati questo articolo è illuminante ma allo stesso tempo preoccupante.
(continua…..)
- Lavezzo, Enrico, Imperial College COVID-19 Response Team, Elisa Franchin, Constanze Ciavarella, Gina Cuomo-Dannenburg, Luisa Barzon, Claudia Del Vecchio, et al. s.d. «Suppression of a SARS-CoV-2 outbreak in the Italian municipality of Vo’». Nature. https://doi.org/10.1038/s41586-020-2488-1. ↩